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Risponderò al
quesito postomi
dall’amico
Cardinale, sulla
supposta
leggenda di
George Byron a
Porto Venere,
sollevata dal
signor Barazzone
(« La Nazione »,
21 luglio) , con
una certa
ampiezza,
riportandomi al
tempo in cui la
lapide
incriminata fu
posta
all’ingresso
della rupestre
Arpaia; ma
basandomi,
purtroppo, sui
soli ricordi
mnemonici di
quanto sentii
dire in
famiglia.
Lessi, a suo tempo, quanto scrisse,
ben a ragione,
Ubaldo Mazzini a
proposito di una
inesattezza
contenuta nella
epigrafe. La
grotta non
poteva avere
ispirato a Byron
la novella in
versi The
Corsaìrs, di
ambiente
orientale come
la serie a cui
apparteneva,
scritta nel
1814, mentre il
poeta ribelle
lasciò
sdegnosamente
l’Inghilterra
(per non
tornarvi più)
intorno al 1815.
E venne a
Venezia, poi a
Pìsa (dove tra
il 1821 e il
1822 fondò un
giornale The
Liberal), fu
lungamente a
Genova, a
Ravenna, a Roma
prendendo parte
al fallito
movimento dei
Carbonari,
eccetera.
Le avventurose scorribande dello
scapigliato
bardo inglese lo
portarono assai
spesso (poiché
disponeva di
carrozze e
cavalli da
viaggio e di un
corteggio di
servi) ad
incontrarsi con
gli altri due
giovani poeti
che insieme a
lui costituivano
quella che la
storia
letteraria
chiama la
«seconda ondata
» del
romanticismo
inglese: John
Keats e Percy
Bisshe Shelley,
quest’ultimo
definito dal
Carducci «
spirito di
Titano entro
virginee forme
». Scomunicati,
come lui, dalla
vecchia Albione,
dimoravano buona
parte dell’anno
sulla costa
lericina, ospiti
dei Trelawny e
dei Williams a
Villa Magni, fra
Lerici e
Santerenzo, fu
il cenacolo
letterario di un
movimento
poetico che ha
dato
l’immortalità ai
tre poeti
ribelli al
conformismo
dell’epoca ma
che vide assai
presto il loro
tragico
crepuscolo: John
Keats si spegne
a Roma per
etisia nel 1821
(a 26 anni) lo
Shelley naufraga
con una barca a
vela e trova la
morte nella
costa di
Versilia nel
1822 (a 30
anni); Byron,
accorso a
difendere la
libertà del
popolo greco,
muore a
Missolungi nel
1824 (a 36 annì
di età). Si era
imbarcato a
Genova per
Cefalonia nel
1823.
Quando Sem Benelli chiamò « golfo dei
poeti » la
grande lunata
spezzina e i
suoi
impareggiabili
approcci, ebbe
certo mente ai
noti poeti della
antichità e di
epoche
successive -
compresi Dante e
Petrarca - che
ne esaltarono il
paesaggio marino
nelle loro
opere: ma, a lui
poeta, dovette
sembrare ragione
principale del
titolo la
vampata di
nuova,
sconcertante
poesia uscita da
Villa Magni
nella prima metà
del suo secolo.
Faro di luce che
attirò verso La
Spezia e il suo
golfo correnti
di artisti
(pittori in
specie) e
facoltosi
giramondo
d’oltre Manica.
Delle sontuose
ville costruite
da taluni di
questi ultimi
restano ancora i
nomi in punti
pittoreschi del
golfo.
Alla Palmaria fu notevole la villa
dei conti Smith
che occupava
tutta l’area di
Punta Scuola.
Ebbi la fortuna
di vederla
ancora intatta
con la sua
grande pineta, i
ben tenuti
giardini e
filari di viti,
le due case
residenziali
(tuttora
esistenti presso
l’imbarcadero)
quando (se ben
ricordo) la
villa era
passata in
proprietà
all’avvocato
Buriassi. Poi
cominciò la
militarizzazione
dell’isola; la
villa fu
espropriata per
intero e nella
sua area furono
costruiti i
grandi impianti
della torre
corazzata
Umberto I armata
con cannoni del
massimo calibro.
Orbene, a differenza di quanto
avviene oggi, i
« foresti »
facoltosi che si
insediavano a
Porto Venere,
oltre ad esserne
spesso i
benefattori, si
interessavano
alle sorti e al
buon nome del
paese. Così
avvenne per i
conti
Pieri-Nerli,
anche essi
possessori di
una grande villa
alla Palmaria,
per il senatore
Giovanni
Capellini, per
l’illustre
storico senatore
Camillo Manfroni
e pochi altri.
Se ben ricordo da quanto si diceva in
famiglia, la
contessa Smith
passava per
donna di alta
cultura, specie
letteraria e —
come la fragile
miss Lucy del
«Dottor Antonio
» di Ruffini —
nutriva molta
simpatia per la
causa italiana.
Da qui
all’essere calda
ammiratrice
dell’opera
poetica del
carbonaro George
Byron è breve il
passo, e si
spiega
ugualmente la
stretta amicizia
con mio padre
(non
commendatore, ma
disinteressato
medico-chirurgo
del comune) che
aveva vissuto la
sua gioventù in
eguale
atmosfera.
In breve, fu la nobildonna inglese a
dare l’idea
della lapide e
mio padre ne fu
l’estensore.
Ella stessa ne
curò la
traduzione in
inglese.
Ovviamente lo
fece su dati
sicuri. E quale
interesse poteva
avere a
inventare una
favola ed
esporla in
sintesi proprio
sul gran
scenario delle
rocce di San
Pietro?
Del resto, non erano passati secoli
dal supposto
avvenimento e
ricordo di aver
sentito dire che
viveva allora
uno dei
barcaioli che
aveva scortato
il
poeta-nuotatore
nella sua
traversata.
Quanto alla
inesattezza
riscontrata dal
citato scrittore
spezzino, era
facile cadere in
errore a chi non
era critico
letterario di
professione,
dappoichè il
poemetto « I
Corsari » si
svolge proprio
in una cornice
di orrido marino
che ricorda
quella che
migliaia di
turisti vanno a
godere nell’Arpaia
di Porto Venere.
Durante il triste periodo delle «
sanzioni » (o
giù di lì) un
ridicolo ordine
di scuderia fece
rimuovere
addirittura la
lapide; ma alla
liberazione i
portoveneresi,
con pubblica
sottoscrizione,
la rimisero a
posto nella sua
stesura
originale, ma
corretta della
inesattezza
rilevata dal
Mazzini. E là
resterà, come
del resto
auspica il
lettore Aldo
Barazzone. Ma —
si convinca, e
con lui gli
spezzini ai
quali si rivolge
— non si tratta
di lapide
menzognera, nè
di leggenda,
Byron, come
Dante, non
lasciò ricordi
dei suoi
itinerari, ed
anche del Divino
Poeta ci è chi
dice che non fu
a Capo Corvo e
nemmeno a
Lerici, che pur
nomina nel suo
poema immortale,
quando è noto
che passò lunghi
mesi ospite dei
Malaspina, senza
peraltro
condannarsi alla
immobilità...
Così, non
convince
l’asserzione del
citato lettore
che Byron fu a
Lerici solo di
passaggio, e per
di più
indisposto,
quando nel 1823,
essendo in
Italia da almeno
sette anni,
stava per
imbarcarsi verso
la Grecia e la
fine della sua
stessa
esistenza, così
fuori orbita da
quella dei
Comuni mortali.
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