1967 - Non è una leggenda il soggiorno di Byron a Porto Venere

 

      

        Risponderò al quesito postomi dall’amico Cardinale, sulla supposta leggenda di George Byron a Porto Venere, sollevata dal signor Barazzone (« La Nazione », 21 luglio) , con una certa ampiezza, riportandomi al tempo in cui la lapide incriminata fu posta all’ingresso della rupestre Arpaia; ma basandomi, purtroppo, sui soli ricordi mnemonici di quanto sentii dire in famiglia.
        Lessi, a suo tempo, quanto scrisse, ben a ragione, Ubaldo Mazzini a proposito di una inesattezza contenuta nella epigrafe. La grotta non poteva avere ispirato a Byron la novella in versi The Corsaìrs, di ambiente orientale come la serie a cui apparteneva, scritta nel 1814, mentre il poeta ribelle lasciò sdegnosamente l’Inghilterra (per non tornarvi più) intorno al 1815. E venne a Venezia, poi a Pìsa (dove tra il 1821 e il 1822 fondò un giornale The Liberal), fu lungamente a Genova, a Ravenna, a Roma prendendo parte al fallito movimento dei Carbonari, eccetera.
        Le avventurose scorribande dello scapigliato bardo inglese lo portarono assai spesso (poiché disponeva di carrozze e cavalli da viaggio e di un corteggio di servi) ad incontrarsi con gli altri due giovani poeti che insieme a lui costituivano quella che la storia letteraria chiama la «seconda ondata » del romanticismo inglese: John Keats e Percy Bisshe Shelley, quest’ultimo definito dal Carducci « spirito di Titano entro virginee forme ». Scomunicati, come lui, dalla vecchia Albione, dimoravano buona parte dell’anno sulla costa lericina, ospiti dei Trelawny e dei Williams a Villa Magni, fra Lerici e Santerenzo, fu il cenacolo letterario di un movimento poetico che ha dato l’immortalità ai tre poeti ribelli al conformismo dell’epoca ma che vide assai presto il loro tragico crepuscolo: John Keats si spegne a Roma per etisia nel 1821 (a 26 anni) lo Shelley naufraga con una barca a vela e trova la morte nella costa di Versilia nel 1822 (a 30 anni); Byron, accorso a difendere la libertà del popolo greco, muore a Missolungi nel 1824 (a 36 annì di età). Si era imbarcato a Genova per Cefalonia nel 1823.
        Quando Sem Benelli chiamò « golfo dei poeti » la grande lunata spezzina e i suoi impareggiabili approcci, ebbe certo mente ai noti poeti della antichità e di epoche successive - compresi Dante e Petrarca - che ne esaltarono il paesaggio marino nelle loro opere: ma, a lui poeta, dovette sembrare ragione principale del titolo la vampata di nuova, sconcertante poesia uscita da Villa Magni nella prima metà del suo secolo. Faro di luce che attirò verso La Spezia e il suo golfo correnti di artisti (pittori in specie) e facoltosi giramondo d’oltre Manica. Delle sontuose ville costruite da taluni di questi ultimi restano ancora i nomi in punti pittoreschi del golfo.
        Alla Palmaria fu notevole la villa dei conti Smith che occupava tutta l’area di Punta Scuola. Ebbi la fortuna di vederla ancora intatta con la sua grande pineta, i ben tenuti giardini e filari di viti, le due case residenziali (tuttora esistenti presso l’imbarcadero) quando (se ben ricordo) la villa era passata in proprietà all’avvocato Buriassi. Poi cominciò la militarizzazione dell’isola; la villa fu espropriata per intero e nella sua area furono costruiti i grandi impianti della torre corazzata Umberto I armata con cannoni del massimo calibro.
        Orbene, a differenza di quanto avviene oggi, i « foresti » facoltosi che si insediavano a Porto Venere, oltre ad esserne spesso i benefattori, si interessavano alle sorti e al buon nome del paese. Così avvenne per i conti Pieri-Nerli, anche essi possessori di una grande villa alla Palmaria, per il senatore Giovanni Capellini, per l’illustre storico senatore Camillo Manfroni e pochi altri.
        Se ben ricordo da quanto si diceva in famiglia, la contessa Smith passava per donna di alta cultura, specie letteraria e — come la fragile miss Lucy del «Dottor Antonio » di Ruffini — nutriva molta simpatia per la causa italiana. Da qui all’essere calda ammiratrice dell’opera poetica del carbonaro George Byron è breve il passo, e si spiega ugualmente la stretta amicizia con mio padre (non commendatore, ma disinteressato medico-chirurgo del comune) che aveva vissuto la sua gioventù in eguale atmosfera.
        In breve, fu la nobildonna inglese a dare l’idea della lapide e mio padre ne fu l’estensore. Ella stessa ne curò la traduzione in inglese. Ovviamente lo fece su dati sicuri. E quale interesse poteva avere a inventare una favola ed esporla in sintesi proprio sul gran scenario delle rocce di San Pietro?
        Del resto, non erano passati secoli dal supposto avvenimento e ricordo di aver sentito dire che viveva allora uno dei barcaioli che aveva scortato il poeta-nuotatore nella sua traversata. Quanto alla inesattezza riscontrata dal citato scrittore spezzino, era facile cadere in errore a chi non era critico letterario di professione, dappoichè il poemetto « I Corsari » si svolge proprio in una cornice di orrido marino che ricorda quella che migliaia di turisti vanno a godere nell’Arpaia di Porto Venere.
        Durante il triste periodo delle « sanzioni » (o giù di lì) un ridicolo ordine di scuderia fece rimuovere addirittura la lapide; ma alla liberazione i portoveneresi, con pubblica sottoscrizione, la rimisero a posto nella sua stesura originale, ma corretta della inesattezza rilevata dal Mazzini. E là resterà, come del resto auspica il lettore Aldo Barazzone. Ma — si convinca, e con lui gli spezzini ai quali si rivolge — non si tratta di lapide menzognera, nè di leggenda, Byron, come Dante, non lasciò ricordi dei suoi itinerari, ed anche del Divino Poeta ci è chi dice che non fu a Capo Corvo e nemmeno a Lerici, che pur nomina nel suo poema immortale, quando è noto che passò lunghi mesi ospite dei Malaspina, senza peraltro condannarsi alla immobilità... Così, non convince l’asserzione del citato lettore che Byron fu a Lerici solo di passaggio, e per di più indisposto, quando nel 1823, essendo in Italia da almeno sette anni, stava per imbarcarsi verso la Grecia e la fine della sua stessa esistenza, così fuori orbita da quella dei Comuni mortali.

 
     
     

  

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